Comunità, merito e giustizia contributiva

Vittorio Pelligra dialoga con Michael Sandel


Vittorio Pelligra: Il tuo primo importante libro del 1982, Il liberalismo e i limiti della giustizia, rappresenta una critica radicale alla cornice teorica elaborata da John Rawls che mette al centro della sua teoria della giustizia soggetti razionali, indipendenti e autonomi, soggetti che tu definisci unencumbered, cioè privi di legami con gli altri, senza un rapporto con la sua comunità, senza una storia, senza radici morali. Riflettendo oggi su questa idea, rileggendo oggi il tuo libro, mi chiedo se la crisi politica che stiamo affrontando — dal populismo crescente alla polarizzazione culturale — non possa essere compresa più a fondo proprio con riferimento a questo conflitto tra un’idea di cittadinanza individualistica e priva di legami morali e un sé invece inserito e in qualche modo definito dalla comunità in cui si identifica, con una vita di relazione vivida e ricca. Michael Sandel: Credo che tu abbia ragione nel suggerire che esiste un legame tra una certa versione del liberalismo — quella che concepisce le persone come individui alieni dai propri legami, dalla propria storia, dalle tradizioni, dalle appartenenze, dalla comunità — e la crisi politica che affrontiamo oggi, per il seguente motivo. Siamo esseri che aspirano a esprimere il proprio senso di appartenenza, di comunità, di solidarietà. Una parte della frustrazione politica che vediamo prevalere oggi nasce proprio dal fatto che le persone percepiscono che il tessuto morale della comunità — dalla famiglia al vicinato, fino alla nazione — si stia disgregando. Le persone desiderano poter sperimentare un senso di appartenenza, desiderano sentirsi connesse, trovare modi per esprimere la loro storia e le loro tradizioni comuni. E se la politica non riesce a creare le condizioni perché tale aspirazione possa realizzarsi — o peggio, cerca di sostituirla con una concezione puramente tecnocratica, o basata sul mercato, o consumistica dell’esistenza, di un essere umano ridotto a semplice consumatore, piuttosto che cittadino legato a un luogo e a un passato — allora prima o poi questo produrrà una reazione. Una reazione che, come temevo allora, può assumere forme molto problematiche. In un libro successivo, La democrazia stanca (Feltrinelli) a metà degli anni ’90, esprimevo la preoccupazione che se non fossimo riusciti a dare espressione pubblica alle identità condivise e a una forma pluralistica e sana di ciò che abbiamo in comune, quel vuoto morale sarebbe stato riempito da affermazioni dure e intolleranti di appartenenza. Vittorio Pelligra: La politica del risentimento. Michael Sandel: Esatto. La politica del “noi contro loro”, comprese le sue espressioni più oscure: xenofobia, sentimenti anti-immigrati e a volte razzisti, che vengono sfruttati da alcune figure populiste di destra, incluso Donald Trump. Questo è ciò che accade quando la politica pluralista fallisce, quando non riconosce e non afferma il nostro bisogno di comunità. Negli ultimi anni abbiamo visto che il patriottismo è stato guardato con sospetto dai progressisti, e questo ha lasciato ai populisti di destra una sorta di monopolio sull’idea di patriottismo. È un errore. Comprensibile, certo, perché troppo spesso il patriottismo viene associato a politiche xenofobe o razziste. Ma non deve essere per forza così. Credo che chi si preoccupa del populismo di destra debba saper articolare una concezione alternativa di appartenenza, comunità, cittadinanza e patriottismo, in modo da offrire un’alternativa pluralista e sana rispetto alle versioni oscure ed escludenti di patriottismo che vediamo nel movimento MAGA e in movimenti simili in Europa.Ne parlavo esplicitamente già in La democrazia stanca a metà degli anni ’90, quando in Occidente dominava un certo trionfalismo: “la Guerra Fredda è finita, il Muro di Berlino è caduto, il capitalismo liberale è l’unico sistema rimasto in piedi”. C’era una sorta di arroganza trionfalistica. Vittorio Pelligra: Credevamo fosse arrivata “la fine della storia”, per usare l’espressione di Francis Fukuyama. Michael Sandel: Si. Nel 1996 ho pubblicato La democrazia stanca e in quel libro suggerivo come, dietro quell’autocompiacimento, potessero crescere frustrazioni legate alla perdita dei legami comunitari. Già allora si iniziava a vedere come sempre più persone sentivano che la loro voce non contava, che non avevano un ruolo significativo rispetto al modo in cui erano governate. E collegavo questa situazione all’immagine del sé “non vincolato” (unencumbered), ad un’idea consumistica della libertà opposta ad un’idea di libertà intesa come capacità di partecipare, insieme ai concittadini, all’autogoverno, e temevo che, se non avessimo affrontato questo problema, ci sarebbe stata una svolta verso politiche escludenti, “noi contro loro”, con un regresso fatto di aggressività basato sulle idee di comunità e di appartenenza troppo a lungo trascurate dai partiti progressisti. Vittorio Pelligra: Mi pare che un altro terribile risultato di questa sottovalutazione dell’aspirazione umana alla partecipazione e alla rilevanza siano ciò che Angus Deaton e Anne Case chiamano le “morti per disperazione”. E la diagnosi che loro propongono è molto simile alla tua: la rottura del senso di appartenenza a una comunità e la disgregazione delle famiglie, la scomparsa della rete di sicurezza che la comunità può fornire nei momenti difficili. Michael Sandel: Aggiungerei che nel loro libro, che ritengo un libro molto importante, Deaton e Case attribuiscono la disperazione a tutte le cose che hai appena menzionato, tra cui la perdita della comunità, il senso di dislocazione, ma anche alla perdita della dignità, il senso di umiliazione che deriva dal fatto che le élite guardano le persone dall'alto in basso. Citano anche il mio libro La tirannia del merito, che approfondisce questo punto al di là del problema di un’idea astratta e non contestualizzata della persona umana e di una politica di umiliazione che deriva da una netta divisione tra vincitori e vinti Vittorio Pelligra: In sintesi, la perdita di significato associato essere parte di qualcosa di più grande. Il tutto ha generato una vera e propria epidemia di morti legate all’abuso di farmaci, all’alcol e per suicidio. Il che è anche collegato al fatto che, come sistema economico, non siamo in grado di fornire lavori significativi per tutti, il che penso sia un grosso problema. “Una terribile ferita psichica”, come la definiva David Graeber. Ho appena finito un libro su questo tema intitolato proprio “L’economia del significato”. Michael Sandel: Mi piace anche solo il titolo. Vittorio Pelligra: Credo che questa idea di cittadinanza di cui tu parli, intesa come un “sé situato”, ricco di legami e appartenenza possa essere interessante per analizzare le nostre società multiculturali, perché l’appartenenza a una comunità implica anche una serie di valori condivisi. Spesso questi valori sono molto diversi da una comunità all’altra. E quando ci riuniamo, a volte questi valori, ricordano la lezione di Isaiah Berlin, sembrano essere incommensurabili. Ci possono essere valori e modi di vita che sono buoni, ma che non parlano tra loro. Non che siano incompatibili, sono semplicemente non confrontabili né classificabili. In questi casi può essere molto difficile aprire un dialogo. Qual è la tua idea di una società ben funzionante composta da gruppi diversi che faticano a dialogare e a trovare un terreno comune di incontro? Michael Sandel: Un dibattito pubblico sano e pluralistico non pretende che i cittadini rinuncino alle loro convinzioni morali e spirituali quando entrano nella sfera pubblica. Questo è un modo per cercare una società tollerante, affermando che il dibattito pubblico dovrebbe essere neutrale rispetto alle concezioni contrastanti di vita buona e della virtù. Vittorio Pelligra: Questa era la posizione di Rawls legata alla sua teoria del “consenso per intersezione”. Michael Sandel: Esatto. Io la rifiuto e penso che negli ultimi decenni abbiamo visto che quella versione del liberalismo ha fallito. Quindi, penso che abbiamo bisogno di un dibattito pubblico più ampio, che accolga le persone affinché portino con sé nella sfera pubblica e nel dibattito democratico le loro credenze, le loro diverse concezioni di cos’è una vita buona. Ora, è difficile prevedere se un dato dibattito sui valori porterà a un accordo o se, almeno per un certo periodo, raggiungerà un punto morto. Non c’è mai alcuna garanzia. È su questo punto che non sono d’accordo con Isaiah Berlin e forse anche con Rawls, nella misura in cui egli afferma che non dovremmo basare la giustizia e i diritti su una particolare concezione del bene. Non possiamo sapere se saremo in grado di raggiungere un accordo su una particolare concezione del bene che potrebbe essere in gioco in un determinato dibattito politico finché non ci proviamo. Quindi, anche se può essere vero che, come hanno sostenuto Isaiah Berlin e altri, esiste un’incommensurabilità ultima dei valori, ciò non significa che il dibattito politico sui disaccordi relativi ai valori sia impossibile.Potrebbe essere possibile per alcune questioni in alcuni momenti e potrebbe raggiungere un punto morto in altri. Ma non è una questione di logica, filosofia o metafisica che ci può dire in anticipo che è in parte empirica e anche interpretativa, perché cosa succede quando ci impegniamo in un ragionamento morale e politico, sia all'interno di una società, sia con la nostra famiglia o tra i nostri amici?Non possiamo sapere in anticipo se stiamo entrando in buona fede in un dialogo di questo tipo. È impossibile prevedere quale sarà il risultato. In un dialogo autentico, a volte riesco a persuadere il mio interlocutore. Altre volte mi ritrovo ad essere persuaso. Queste sono due possibilità che devono essere sempre presenti in qualsiasi dialogo autentico, il che non garantisce che in un dato caso raggiungeremo un accordo. Il motivo per cui è importante trovare la strada verso un tipo di discorso pubblico moralmente più solido rispetto a quello a cui siamo abituati non è necessariamente il raggiungimento di un accordo. Il motivo per cui è importante è che una democrazia sana richiede che ci confrontiamo gli uni con gli altri al di là delle nostre differenze e dei nostri disaccordi. Perché anche se non raggiungiamo un accordo su una questione particolare, avremo comunque imparato qualcosa gli uni dagli altri.Una delle cose che manca nella nostra vita pubblica è l’arte di ascoltare. E ascoltare con attenzione e comprensione le convinzioni morali che stanno dietro alle opinioni, alle opinioni diverse che le persone hanno. La capacità di ascoltare è una virtù civica. Non siamo nati con questa virtù. Deve essere coltivata. E quando ascoltiamo in questo modo, poi, ogni tanto, riusciamo anche ad arrivare a un accordo.Altre volte il nostro disaccordo, la nostra distanza, può diventare ancora più evidente, ma c’è comunque una sorta di apprendimento reciproco e da questo apprendimento reciproco può nascere un certo rispetto reciproco, e questi apprendimento reciproco e rispetto reciproco sono beni civici indipendenti dal fatto che siamo in grado di raggiungere un accordo su una particolare questione moralmente controversa. Vittorio Pelligra: Sono molto d’accordo. E una posizione che mi ricorda molto l’etica del discorso di Jurgen Habermas. In un altro mio libro recente descrivo la qualità del discorso pubblico come un bene comune, un common. E come sappiamo i beni comuni, tendono a sfruttati eccessivamente. Per cui per farsi sentire occorre alzare la voce, fare un titolo strillato, elevare la conflittualità, ma se anche gli altri fanno lo stresso allora parlare e ascoltarsi a vicenda diventerà impossibile; tuttavia, la logica del comportamento egoistico porta alla distruzione del bene comune ed è per questo che dovremmo operare per proteggere attivamente la qualità del dibattito pubblico. Questa è l'implicazione di descriverlo come un bene comune. Michael Sandel: Sì, mi piace l’idea, sono d’accordo. Vittorio Pelligra: So che non ti piace essere definito un “comunitarista”, ma nell’ambito della tua riflessione l’idea di comunità, di appartenenza e di identità hanno avuto un ruolo molto importante. I critici della posizione comunitarista, però, sottolineano spesso il fatto che la comunità può essere allo stesso tempo la culla che ci protegge e dove ci sviluppiamo come esseri umani, ma può anche essere luogo di esclusione e intolleranza e può rappresentare un vincolo al dialogo con gli altri. Quindi qual è il giusto equilibrio tra l’esigenza di una identità e un’appartenenza bene definite e la capacità di essere aperti al dialogo con chi ha visioni del mondo differenti? Michael Sandel: Il modo migliore per essere aperti, il modo più vero e completo per essere aperti non è quello di essere vuoti, distaccati da qualsiasi convinzione personale. Al contrario, per essere veramente aperti alla comprensione delle opinioni morali o delle convinzioni spirituali degli altri occorre sapere cosa significa vivere una vita ricca di convinzioni morali o spirituali. Perché solo allora il dialogo può assumere la forma di un riconoscimento reciproco che, come abbiamo detto prima, non necessariamente produrrà un accordo, ma è prima di tutto un modo di essere. Se pensiamo, ad esempio, al dialogo interculturale o ai vari tentativi delle comunità religiose di raggiungere una comprensione comune, il tipo di apertura che più si presta alla comprensione reciproca è quella che potremmo definire un’“apertura radicata” o “situata”. È il tipo di apertura che deriva dal sapere cosa significa vivere una tradizione e avere convinzioni morali e valori che possono essere legati a quella tradizione. E, in parte come risultato di ciò, essere curiosi e aperti ad altre espressioni della vita buona, per esempio, o delle virtù. Ecco perché la chiamo “apertura radicata” o “situata”. Una persona puramente distaccata che dice: “Voglio conoscere la tua tradizione o il tuo modo di essere o le tue convinzioni morali e sono aperto perché non ne ho di mie” rappresenterebbe un punto di partenza molto poco plausibile per un dialogo.È vero, ed è questo che preoccupa i critici del comunitarismo, che a volte possiamo essere così radicati nelle nostre tradizioni e nelle nostre prospettive da non lasciare spazio alla riflessione critica o ad interpretazioni contrastanti. Non c’è spazio ermeneutico dove possa avvenire l’incontro. È una preoccupazione legittima. E ci sono alcune tradizioni così chiuse e radicate che mancano di quella curiosità che idealmente spinge i portatori di una tradizione a confrontarsi con altre tradizioni.Se pensiamo alle comunità religiose che cercano di capirsi meglio a vicenda, il modo migliore per farlo non è insistere affinché le persone prendano le distanze dalle proprie credenze, ma piuttosto sedersi insieme e leggere i testi delle rispettive tradizioni. Leggerli insieme e cercare di interpretarli insieme e discuterne. Ho scoperto che questo può essere un modo entusiasmante per esplorare le somiglianze e le differenze delle tradizioni morali, spirituali e religiose. Ma l’apertura deriva dall’essere situati, non dall’allontanarsi e dall’essere distaccati dalle proprie radici. Pensi che abbia senso? Vittorio Pelligra: Sì, certamente, un “dialogo della vita” prima ancora che delle idee. E pensi che queste due prospettive - il sé distaccato e il sé incarnato – abbiano dei corrispettivi politici nelle ideologie dei partiti progressisti e dei conservatori? Intendo una sinistra che ha rinunciato alle idee di comunità, solidarietà, tradizione, etc… lasciandone il monopolio alla destra. Mi riferisco in particolare al dialogo che hai recentemente avuto con Thomas Piketty che è stato recentemente pubblicato in un interessante libro sull’uguaglianza (Uguaglianza. Che cosa significa e perché è importante. Feltrinelli, 2025). Una delle critiche che rivolgi ai partiti progressisti è che hanno trascurato questioni importanti come la dignità, il patriottismo, la comunità, lasciandole totalmente alla destra conservatrici. Michael Sandel: Sì. Penso che questo descriva la difficile situazione in cui si trova oggi la sinistra o il centro-sinistra, soprattutto all’indomani di cinque decenni di politiche economiche neoliberiste abbracciate in egual misura sia dal centro-sinistra che dal centro-destra. Quindi, anche in quel libro, ho cercato di sostenere che i progressisti devono abbandonare il neoliberismo, il liberalismo della neutralità, abbandonare il sospetto nei confronti dell’appartenenza alla comunità e del patriottismo. Certamente non intendo che debbano abbracciare la versione che offre la destra MAGA, per esempio, ma elaborare e offrire un’alternativa pluralistica. Quindi vedo questo come un fallimento dei partiti di centro-sinistra e penso che l’unico modo per rispondere alla sfida, più che alla sfida, al pericolo rappresentato dai movimenti populisti di destra autoritari sia quello di ripensare la politica progressista o pluralistica in un modo che coinvolga e articoli il senso di comunità di appartenenza di ciò che dobbiamo gli uni gli altri come concittadini. E che esprima anche una versione di patriottismo. Tradizionalmente, i partiti e i movimenti di sinistra invocavano forti nozioni di solidarietà, che è un altro modo per descrivere la politica comunitaria del bene comune. È solo negli ultimi decenni, nell’ultimo mezzo secolo, che il centro-sinistra ha in gran parte abbandonato, anche se non del tutto, questa ricca tradizione. Occorre confrontarsi con questioni di carattere morale per articolare ciò che condividiamo come cittadini, di come la nostra storia e la nostra tradizione possano dare origine a determinati obblighi reciproci che dobbiamo riconoscere per costruire una società giusta. E così ho cercato di spingere la politica progressista in questa direzione, finora direi senza troppo successo. Cosa ne pensi tu, Vittorio? Vittorio Pelligra: Sono totalmente d’accordo su questo punto relativo alla trasformazione della piattaforma progressista. Dico che probabilmente è a causa della perdita di cose come il forte senso di solidarietà, forse perché abbiamo raggiunto grandi risultati, ad esempio nel campo del welfare, par quanto riguarda i diritti civili e così via. Questi successi hanno in qualche modo trasformato e ridotto il nostro senso di responsabilità e anche i legami sociali. Ora, sempre più spesso, deleghiamo la responsabilità della cura e del benessere di chi ci sta a fianco alle istituzioni e sempre più spesso al mercato, invece di occuparci personalmente dei bisogni di chi ci sta vicino. Michael Sandel: Se posso aggiungere una cosa a quello che hai appena detto, Vittorio, anche lo stato sociale che ora viene eroso in molti paesi, lo stato sociale non può essere sostenuto sulla base di una politica puramente tecnocratica. È nato come progetto morale e civico e potrà essere rafforzato e preservato solo con una nuova morale e un progetto civico. Un modo puramente tecnocratico di spiegare l’importanza dello stato sociale fallirà e sta già fallendo. Vittorio Pelligra: Una delle ragioni che sta alla base di questo fallimento è la diffusione della retorica meritocratica. Esistono dati che dimostrano come la convinzione nel ruolo della fortuna o nel ruolo del merito rispetto alle vicende dei singoli influenzi e orienti il finanziamento delle politiche pubbliche di welfare. Una retorica che si sta diffondendo nella maggior parte dei paesi occidentali. Qui in Italia avevamo il “Ministero della pubblica istruzione” ora il nome è cambiato in “Ministero dell’istruzione e del merito”. E quando si sostiene l’idea che se ce l’hai fatta ce l’hai fatta perché te lo sei meritato, questo significa allo stesso tempo, simmetricamente, che se non ce l’hai fatta ad emergere, se sei povero è perché sei pigro, quindi la povertà te la meriti. Queste idee facilitano l’aggregazione del consenso politico intorno a misure volte a ridimensionare il supporto pubblico, il contrasto alla povertà e l’accesso inclusivo ai servizi. Michael Sandel: Sì. Esatto. Vittorio Pelligra: Penso che ci siano due lati principali della meritocrazia. Uno riguarda il versante individuale: le persone vengono umiliate da questa retorica e le disuguaglianze vengono moralmente legittimate. Il secondo aspetto, invece, è quello istituzionale e politico, che, come dicevo riguarda l’allocazione delle risorse. Michael Sandel: Concordo con tutto ciò che ha appena detto. Rappresenta il tema principale del mio libro, La tirannia del merito. Lo ha descritto molto bene. Negli ultimi cinquant’anni la versione neoliberista della globalizzazione ha prodotto una crescente disparità di reddito e ricchezza. Ma questa non è l’unica fonte della rabbia, del risentimento e del malcontento che hanno portato alla reazione populista di destra. Perché alla crescente disuguaglianza economica, si è venuta ad affiancare una crescente disuguaglianza in termini di riconoscimento sociale, dignità, onore e rispetto, soprattutto tra chi ha una laurea e chi non ce l’ha. Il divario tra chi ha un titolo superiore e chi non ce l’ha è diventato uno dei divari più profondi nella nostra politica. E questo è collegato alla retorica del merito. Quindi, nello stesso periodo in cui è cresciuta la disuguaglianza di reddito e ricchezza, abbiamo assistito a un crescente divario tra vincitori e vinti. Il neoliberismo ha prodotto il divario tra ricchi e poveri. Ma la tirannia del merito ha prodotto il divario tra vincitori e vinti, Si tratta di qualcosa di più del denaro. Riguarda il riconoscimento sociale e la stima.Questo modo di pensare al successo, proprio come dici tu, ha finito per legittimare le disuguaglianze prodotte dall’era della globalizzazione neoliberista. Tradizionalmente, la meritocrazia era vista come un alleato dell’uguaglianza. Uno strumento per abbattere i privilegi ereditari, i privilegi aristocratici tramandati di generazione in generazione. Vittorio Pelligra: Il principio delle “carriere aperte ai talenti” nella terminologia ottocentesca del liberalismo classico. Michael Sandel: Esatto! Rappresentava un’alternativa al nepotismo, al clientelismo e alla corruzione. Ma oggi la meritocrazia funziona al contrario, per legittimare le disuguaglianze, proprio come hai detto tu, perché fornisce una giustificazione ideologica alle crescenti disuguaglianze di reddito e ricchezza che si sono accentuate negli ultimi decenni. E questo alimenta anche la politica velenosa e la polarizzazione che vediamo oggi. Perché la tirannia dell’“io” e l’atteggiamento meritocratico nei confronti del successo portano all’arroganza di chi vince e all’umiliazione di chi perde. Porta i vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e le circostanze favorevoli che li hanno aiutati nel loro percorso, a dimenticare il loro debito verso coloro che hanno reso possibili i loro successi. E questo si ricollega al punto che stavi sottolineando, Vittorio, riguardo all’ideologia della meritocrazia che, combinata con le disuguaglianze economiche, contribuisce all’erosione della fornitura pubblica di beni e dello stato sociale. Perché più le persone sono convinte che i vincitori meritino la loro vittoria e che chi rimane indietro meriti il proprio destino, più è difficile suscitare la solidarietà necessaria per una società coesa e inclusiva. Anche una meritocrazia pienamente realizzata ha un lato oscuro: è corrosiva. E il motivo per cui è corrosiva per il bene comune è che genera arroganza tra i vincitori e umiliazione tra coloro che perdono. Vittorio Pelligra: Ricordo un recente sondaggio Gallup su un campione rappresentativo della popolazione statunitense e i dati mostrano che sia per i democratici che per i conservatori il sostegno a varie politiche pubbliche - abitazioni, istruzione, assicurazione sanitaria, accesso aa internet, etc. - era inversamente correlato al reddito. Quindi, più alto è il reddito, minore è il sostegno all’edilizia popolare, ad esempio. E questo è un fenomeno bi-partisan, il che è piuttosto interessante. La posizione di Rawls sul merito e sui rischi della meritocrazia è molto interessante perché non nega le differenze, ovvero che siamo diversi. Per via della “lotteria della nascita” e la “lotteria genetica”. Non nega le differenze ma fa una riflessione interessante: dobbiamo accettare queste differenze, ma il problema non è che ci siano delle differenze. Il problema vero è cosa ne fanno le istituzioni di queste differenze? Come le istituzioni, come la “struttura di base”, gestiscono queste differenze a vantaggio di chi è più svantaggiato. In questo senso non è molto lontano dal tuo richiamo alla funzione emancipatrice della dignità del lavoro. Michael Sandel: Penso che dovremmo spostare i termini del discorso politico dal chiedersi come possiamo armare di pistole e fucili le persone a come possiamo armarle di conoscenze, idee e categorie per metterle nelle condizioni di salire la scala del successo in un momento in cui i pioli della scala stanno diventando sempre più distanti. Vittorio Pelligra: Non è solo una questione di pari opportunità. Michael Sandel: Giusto. Questo non vuol dire che l’uguaglianza delle opportunità non sia importante. Nessuno dovrebbe essere ostacolato dalla povertà o dal pregiudizio. Ma è importante ricordare che l’uguaglianza delle opportunità è un principio correttivo. Non è un ideale adeguato per una società giusta. Ciò di cui abbiamo bisogno per andare oltre le pari opportunità, secondo alcuni, è una sterile, coercitiva e oppressiva uguaglianza dei risultati, in cui tutti devono avere lo stesso reddito e la stessa ricchezza. Ma questa non è l’unica alternativa. Piuttosto, secondo me, l’alternativa per andare oltre le pari opportunità è cercare un’ampia “uguaglianza democratica di condizioni” che abbia almeno due elementi. Uno di questi, come hai detto tu, è l’enfasi sulla dignità del lavoro, sul miglioramento della vita. Mi spiego meglio. La dignità del lavoro significa che dobbiamo prestare attenzione non solo alla giustizia distributiva, che riguarda la rete di sicurezza e la garanzia dell'accesso ai beni e ai bisogni umani fondamentali. Dobbiamo andare oltre la giustizia distributiva e considerare la “giustizia contributiva”. Come hai detto prima tu, la giustizia contributiva consiste nel riconoscere e premiare il valore del contributo di ciascuno all’economia e al bene comune, senza dare per scontato che il denaro guadagnato sia la vera misura del valore di tale contributo. Negli ultimi decenni abbiamo commesso l’errore di ritenere che il denaro guadagnato fosse la misura del valore del contributo di ciascuno.Abbiamo delegato il nostro giudizio morale su ciò che conta veramente nella vita alla logica del mercato e del prezzo. Ma sappiamo che i mercati sbagliano. Perché se i mercati fossero la vera misura del valore di un contributo, allora un magnate miliardario dell’azzardo sarebbe colui che contribuisce permettendo alle persone di assecondare il loro desiderio di giocare alle slot machine o alla roulette. È davvero un valore 10.000 volte superiore a quello di un insegnante, un infermiere o un medico? La maggior parte delle persone ammetterebbe che no, non è una misura reale del valore del contributo. Ciò significa che dobbiamo rivendicare, come cittadini, un giudizio più complesso rispetto a cosa sia davvero un contributo prezioso. Le persone avranno opinioni diverse, ma ecco un esempio di dibattito moralmente impegnato di cui abbiamo bisogno e che potrebbe rinvigorire il discorso pubblico. Come dovremmo ricompensare, ad esempio, chi lavora nel settore della cura, o le persone che educano i nostri figli? Abbiamo bisogno di un dibattito pubblico su ciò che conta come contributo prezioso. Ma al di là di questo, la giustizia contributiva fa riferimento al fatto che le persone non vogliono solo un accesso equo ai beni. Le persone vogliono anche poter esercitare i propri talenti in modo da soddisfare le esigenze degli altri nella società e ottenere il riconoscimento sociale e la stima per i contributi che danno. Il bisogno umano più profondo è quello di essere necessari agli altri e di poter contribuire a soddisfare i loro bisogni, ottenendo in cambio stima e riconoscimento. Questo è il senso della giustizia contributiva. E penso che il crescente senso di esclusione e dislocazione delle persone, la rabbia e il risentimento non riguardino la disuguaglianza economica, né solo l’impossibilità di accedere a vari beni di consumo. Riguardano il fatto di essere guardati con disprezzo. Riguardano la mancanza di dignità.Questa sarebbe una parte importante del cambiamento, una nuova politica del bene comune. L’altra parte per creare una vera “uguaglianza di condizioni” sarebbe rafforzare le istituzioni che favoriscono la mescolanza delle classi all'interno della società civile. Perché uno degli effetti più corrosivi delle disuguaglianze degli ultimi decenni è che queste disuguaglianze ci hanno portato a vivere vite separate. Chi è benestante e chi ha mezzi modesti raramente si incontrano nel corso della giornata. Mandiamo i nostri figli in scuole diverse. Viviamo, facciamo acquisti, lavoriamo e giochiamo in luoghi diversi. Ci sono sempre meno luoghi pubblici e spazi comuni che riuniscono persone di diversa estrazione sociale nel corso della loro vita quotidiana. Quindi penso che parte di una nuova politica del bene comune richiederebbe di ripensare l’infrastruttura civica della vita comune per costruire istituzioni che favoriscano la mescolanza tra le classi sociali, dagli stadi sportivi ai parchi pubblici e alle aree ricreative, dai municipi alle piscine comunali, dalle biblioteche pubbliche ai trasporti pubblici.E’ attraverso l’incontro dove si mescolano persone provenienti da contesti sociali diversi che impariamo a gestire e ad accettare le nostre differenze. Ed è così che arriviamo a preoccuparci del bene comune. Se non vediamo e non interagiamo con persone di classi sociali diverse, è molto difficile arrivare a preoccuparci per loro o a riconoscere ciò che abbiamo in comune. Rinnovare la dignità del lavoro e prendere sul serio la giustizia contributiva. Questa è una parte importante di una nuova politica del bene comune: fare un tentativo deliberato di creare luoghi pubblici e spazi comuni, istituzioni che mescolano le classi sociali, che riuniscono le persone e abbattono l’isolamento. Questa sarebbe un’altra parte. E poi una terza sarebbe qualcosa di cui abbiamo discusso durante tutto il percorso per trovare la nostra strada verso un discorso pubblico più impegnato, meno tecnocratico, che coinvolga piuttosto che cercare di evitare le convinzioni morali che i cittadini portano nella vita pubblica. Vittorio Pelligra: Gli psicologi sociali definiscono questa idea di mescolanza a cui facevi riferimento l’“ipotesi del contatto”. Quindi, entrare in contatto con persone di etnie differenti, classi sociali e tradizioni differenti è un buon modo per ridurre la diffidenza e promuovere la coesione e la cooperazione.Un’ultima osservazione: l’idea di giustizia contributiva è stata proposta per la prima volta dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti nel 1981, in un documento intitolato “Economic Justice for All”. Penso che non sia un caso che questa idea, come anche tu l’hai sviluppata abbia una radice evangelica. Ma l’aspetto personale, morale, non è sufficiente. Affinché si possa davvero sperare in una società più giusta anche dal punto di vista “contributivo” occorre rivendicarla, occorre richiedere un ruolo attivo alle istituzioni pubbliche. Rivendicare più giustizia contributiva significa che dobbiamo chiedere alle nostre istituzioni di creare le condizioni preliminari affinché ciascuno di possa contribuire attivamente alla comunità. E quindi più lavoro di qualità, maggiori occasioni di socializzazione, case dignitose, un’istruzione di livello per tutti, lotta efficace alle discriminazioni e all’esclusione, solo per fare qualche esempio. Penso che questa sia una delle grandi responsabilità della politica del bene comune. Michael Sandel: Concordo Vittorio Pelligra: Abbiamo finito. Michael Sandel: Va bene. Mi è piaciuto molto dialogare con te.