No war factory


è civile perchè

sa trasformare ordigni bellici in gioielli, sa restituire dignità al lavoro di piccole comunità familiari del Laos, trasformando un villaggio pesantemente colpito dalla guerra e dalle bombe, in una comunità operosa capace di ritornare a vivere

«Per me i valori sono la trasparenza, la capacità di dare il buon esempio, di instaurare rapporti di fiducia con i collaboratori, i clienti, la comunità locale»

Regalare una seconda vita ad un oggetto è una lezione salutare.


Ci può insegnare - soprattutto in tempi di crisi - il valore delle cose, la loro possibilità di passare di mano in mano, di venire regalate, senza diventare precocemente scarto o rifiuto da smaltire. La cultura del riuso ci induce a far rivivere gli oggetti, così come le vecchie case e i borghi abbandonati, prolungando la storia di luoghi che hanno un’anima. Aggiusta, riutilizza, reinventa le cose, salvandoci dalla condanna a consumarle. Impiegare il proprio tempo per dare una seconda vita alle cose è un atto di civiltà, di attenzione ambientale, di sfida all’eternità. E insieme paradossalmente è un modo per liberarci dal possederle, dal conservarle gelosamente per sempre. Che liberazione, nello sgombrare le nostre case dalle cose che non usiamo, nel fare circolare i beni che non ci servono.
È in questo clima culturale che nasce il progetto No War Factory.

Dal 1964 al 1973 gli Stati Uniti hanno sganciato oltre due milioni di tonnellate di ordigni sul Laos durante 580.000 missioni aeree


l’equivalente di un aereo carico di bombe ogni 8 minuti, 24 ore al giorno per 9 anni, rendendo così il Laos il paese più bombardato della storia.
Il trenta per cento degli ordigni lanciati dal 1964 al 1973 dagli Stati Uniti sul Laos, il paese più bombardato della storia, non sono esplosi. Si tratta di 80 milioni di bombe da disinnescare che negli anni a seguire, hanno causato la morte o la perdita di arti a più di 50.000 (1964 al 2011).
Tra le zone più colpite c’è la Piana delle Giare, dove sorge Ban Naphia, un villaggio dove gli abitanti, già da diversi anni, hanno iniziato a trasformare l’alluminio ricavato dagli scarti bellici in oggetti di uso comune. Bracciali, ma soprattutto utensili di uso quotidiano come cucchiai venduti poi ai ristoranti con un guadagno che contribuisce allo sviluppo economico del villaggio.
Un’economia di sussistenza e di riscatto che ha colpito molto Massimo Moriconi e sua moglie Serena Bacherotti, impegnaticon l’associazione canadese “Adopt a Village in Laos” per lo sviluppo di progetti umanitari nei villaggi rurali, principalmente per quanto riguarda la distribuzione di filtri in ceramica trattati con argento colloidale, indispensabili per rendere potabile l’acqua di tali zone.
Osservando quello che la popolazione già stava facendo per recuperare i frammenti bellici delle bombe, a Massimo e Serena è venuta l’idea di lanciare il progetto No War Factory: i laotiani realizzano i manufatti attraverso una tecnica chiamata “a staffa”, ovvero l’alluminio fuso ricavato dagli ordigni bellici viene colato in stampi di argilla per la produzione dei primi pezzi grezzi, che sono importati in Italia dove avviene la rifinitura con pietre e argento e i pezzi grezzi diventano gioielli veri e propri. Dal gennaio 2019 si aggiunto anche Riccardo Biagioni.
Ad essere coinvolte sono invece 13 famiglie dalle quali vengono acquistati i manufatticontribuendo così all’economia di tutto il villaggio. Il 10% del fatturato netto viene inoltre destinato all’acquisto e distribuzione di filtri per l’acqua e alle associazioni di sminamento dei territori. I terreni in cui vengono recuperati i frammenti sono infatti bonificati dall’associazione di sminamento MAG (Mine Advisory Group) che attraverso metal detector rileva oggetti in metallo e una volta identificato l’oggetto decide se distruggerlo in loco o in luoghi più sicuri. A questo punto, il metallo viene trasferito in fonderie locali e poi recuperato dagli artigiani che lo lavorano.

www.nowarfactory.com

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