ContrEconomia/3

La castità della consulenza

di Luigino Bruni

"Mi spaventa soprattutto la sofferenza che avanza nel mondo come un rullo compressore. Me ne importa poco della colpa, poco della giustizia, poco della verità, poco della bellezza: me ne importa della sofferenza."Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l’abisso Le crisi ambientali, finanziarie e militari di questo inizio di millennio rischiano di farci sottovalutare o dimenticare una non meno grave triplice crisi: della fede, delle grandi narrative e del generare. Un mondo che non attende più il paradiso, senza narrative collettive e senza figli, non trova più un sufficiente senso per vivere e quindi per lavorare. Perché dovrei lavorare se non spero più in una terra promessa (sopra o sotto il cielo), se non ho nessuno che attende dal mio lavoro un presente e futuro migliori? Il mondo del lavoro non ha mai creato né esaurito il senso del lavoro. Ieri erano la famiglia, le ideologie, la religione a dare al lavoro il suo primo senso. La fabbrica, i campi o l’ufficio rafforzavano quel senso che però nasceva fuori. Il lavoro è grande, ma per essere visto nella sua grandezza deve essere guardato da fuori, da una porta che si apre sull’esterno; senza questo spazio largo, la stanza del lavoro è troppo angusta, il suo tetto troppo basso perché quell’animale malato d’infinito che è l’homo sapiens possa restarci a lungo senza asfissiare. La nostra Costituzione è fondata sul lavoro perché il lavoro era fondato su qualcos’altro. L’economia registra un crescente disagio del lavoro: ma quando capiremo che questo malessere lavorativo è prima malessere esistenziale generato da questa triplice carestia? «Dov’è andato Dio?… ve lo voglio dire! Noi lo abbiamo ucciso, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! … Non stiamo vagando in un infinito nulla?» (F. Nietzsche La Gaia Scienza). Quell’uomo folle grida la morte di Dio nel «mercato», poiché «proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio». Nel mercato, il banditore della morte di Dio «suscitò grandi risa» (La Gaia Scienza, 125). I mercanti ridevano; forse perché speravano che quel “super-uomo” necessario per vivere in un mondo senza Dio sarebbe stato l’homo oeconomicus, grazie alla sua nuova religione capitalistica. Ma i mercanti che ieri ridevano oggi si stanno rendendo conto che quell’infinito nulla sta divorando la stessa economia. La consulenza è l’ultimo tentativo che il mercato sta compiendo per resistere al vento della vanitas. Perché sulla linea dell’orizzonte della terra senza dèi non è apparso nessun superuomo: abbiamo invece visto un uomo sempre più fragile e solo. Sofferente, nascosto dalla maschera buffa dell’edonismo. Avevamo lasciato i consulenti dentro la riflessione sulla sussidiarietà. Manca ancora un ultimo passaggio: una buona consulenza sussidiaria deve sapere andar via nel giusto momento. Terminato il suo lavoro, il consulente deve sapersi ritirare, sparire, uscire dal processo per non trasformare il legame in vincolo, favorendo l’autonomia di chi ha aiutato. Ma essendoci nella consulenza anche una dimensione di potenziale conflitto di interessi (l’aiutato è anche fatturato), l’uscita non è mai semplice né garantita. Così, qualche volta, il rapporto di aiuto dura troppo e quindi si perverte. Spesso la non-uscita è voluta dal “cliente” che durante il processo di aiuto ha progressivamente sviluppato una relazione di dipendenza dai suoi accompagnatori. L’arte preziosa del consulente (che si occupa di persone e di relazioni) e dell’accompagnatore sta allora nella sua capacità di scomparire, di lasciar andare. Rendersi col passare del tempo sempre meno necessario, fino a diventare inutile – l’inutilità finale dovrebbe essere il suo obiettivo esplicito, sta qui la sua eccellenza. Quando invece il passare del tempo aumenta il bisogno del consulente, quella consulenza sta fallendo e grande diventa il rischio di manipolazione: il consulente da aiuto per il discernimento diventa colui/colei che decide e governa: era entrato per servire, finisce per comandare. Un’altra dimensione essenziale della buona consulenza e dell’accompagnamento organizzativo ce la suggerisce ancora la Bibbia, nel Libro del profeta Daniele, il grande sognatore ed interprete di sogni. Gli interpreti di sogni nel mondo antico erano un mestiere al confine tra arte e scienza di cui si servivano soprattutto i potenti. Erano visti come coloro che mettevano ordine in un mondo sconosciuto e minaccioso. Un giorno, Daniele fa un sogno “difficile” - quello sul misterioso “figlio dell’uomo”, figura cara a Gesù (Daniele 7,13-14). In sogno ha una visione – notare che visione, vision, è una delle grandi parole della consulenza. Daniele però questa volta non riesce a capirne il senso; si agita, è turbato, e quindi chiede aiuto ad un angelo-interprete: «Io, Daniele, mi sentii agitato nell’animo... Mi accostai a uno degli angeli vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede spiegazione» (7,15-16). Pur essendo interprete di sogni, propri e degli altri, ora Daniele ha bisogno di un terzo, di un altro interprete – la stessa situazione si ripeterà nel capitolo successivo (8). Il bisogno “di un interprete per l’interprete” ci dice qualcosa di importante. L’interpretazione dei sogni ha natura relazionale e ternaria. Una buona relazione di accompagnamento, infatti, da binaria (A-B) deve diventare ternaria (A-B-C), perché l’apertura della relazione a un terzo (C) protegge l’interprete dal diventare il padrone dei sogni che sta interpretando. Il terzo è la possibilità di castità dell’interprete. Ma affinché questa apertura si attivi, c’è bisogno che l’interprete senta il “turbamento”, perché avverte la sua insufficienza di fronte al sogno. Il pericolo più grande è la mancanza di questa consapevolezza di indigenza, quando il consulente non avverte mai o non avverta più il bisogno di chiedere aiuto a un “angelo” esterno. La buona consulenza sussidiaria è dunque una relazione aperta a un terzo. Questa è la fondazione biblica della supervisione, che oggi è obbligatoria in molte forme di consulenza – sebbene non in tutte. Quando l’interprete non ha a sua volta un altro interprete, il rapporto tende a chiudersi in una relazione binaria, sempre pericolosa ma molto grave con le visioni difficili, che rimangano sigillate perché il “due” non è diventato “tre”. Il libro di Daniele, un grande manuale per sognatori e interpreti, contiene un altro episodio particolarmente interessante. All’inizio della storia, il re Nabucodonosor fa un sogno misterioso. Ne fu talmente agitato «da non poter più dormire» (2,1) perché non sapeva interpretarlo. Convoca così tutti gli indovini e gli aruspici del regno, ma nessuno riesce. Anche per un dettaglio curioso e decisivo: il re non racconta agli interpreti il sogno da interpretare, chiede a loro di narrarlo. Perché? Non lo aveva dimenticato. Il motivo era un altro. Se il re avesse rivelato il suo sogno, la cultura babilonese possedeva sofisticati prontuari di oniromanzia che scomponevano i sogni nei loro elementi essenziali e così producevano sempre un responso. Il sogno sarebbe stato spiegato dalla tecnica; il re voleva invece qualcosa di più, sentiva che la sola tecnica non bastava per quel sogno diverso e speciale. Il re aveva dunque paura che il suo sogno potesse essere manipolato dai tecnici, che esercitavano un grande e seducente potere sui sovrani – tutti gli interpreti sono affascinanti in quanto depositari di saperi misteriosi. Vuole quindi la garanzia che il suo interprete sia onesto, e in quel mondo essere onesto significava essere messaggero di Dio: essere dunque un profeta, qualcuno cioè mosso da gratuità, da vocazione e non solo dal profitto e dal potere. Giunge finalmente Daniele, profeta vero, e «il mistero fu rivelato a Daniele in una visione notturna» (2,19). Per molti accompagnamenti ordinari le tecniche bastano. Ci sono però alcuni discernimenti che per essere “sciolti” hanno bisogno di tecnica ma anche di vocazione. In questi casi, rari ma decisivi, non basta interpretare la visione raccontata: bisogna indovinarla prima che l’altro ce la dica. Qui il terzo necessario diventa il sogno stesso. Ciò è rilevante in quelle situazioni molto complesse e delicate dove è in gioco l’esistenza stessa dell’istituzione o della comunità. Qui al consulente è richiesto uno spreco straordinario di tempo, di risorse, di energie, affrontare il rischio di fallimento, scelte che non si giustificano solo nei termini del contratto e dell’onorario, sprechi che vanno oltre quelli piccoli ordinari. Si intuisce presto che per provare a risolvere il caso ci sarà bisogno di molto di più di quanto in genere si fa. Si può decidere di uscire presto o di non iniziare; ma si può anche decidere di restare, e restando riveliamo la nostra vocazione, diciamo a noi stessi che abbiamo un onore più grande dell’onorario, che ci interessa il nostro stare al mondo e non solo stare nel mercato. Queste scelte restano quasi sempre nascoste ai “clienti”, ma sono custodite nella cella vinaria del cuore. Qualche volta, però, qualcuno se ne accorge, e quell’ascolto profondo, lento e senza minutaggio fa capire all’altro che non stiamo lavorando solo con la tecnica. Téchne si unisce a psyche, la competenza si ricongiunge con l’anima. E quando l’altro capisce che stiamo lavorando anche per vocazione, nasce in lui/lei una qualità diversa della fiducia e ci fa entrare in stanze segrete dei suoi sogni, dove spesso si trova la chiave della soluzione del suo discernimento. Ai tecnici si dice qualcosa, all’anima si dice molto, all’anima unita alla tecnica si può dire tutto. Ma c’è qualcosa di più. Quel dialogo tra Daniele e l’angelo-interprete avviene durante la visione. L’esegeta del sogno è dentro lo stesso sogno. Per molte visioni è possibile, e forse è bene, che l’interprete sia fuori dal nostro sogno, perché la distanza terapeutica è spesso importante – a volte è bene che l’esegeta sia “sveglio” mentre noi sogniamo. Ma in alcuni sogni diversi, l’interprete deve stare dentro il nostro stesso sogno, l’angelo deve essere qualcuno che ci conosce intimamente perché è dentro la stessa esperienza, è un personaggio della comune visione. Qualche volta non riusciamo a decifrare i nostri problemi perché l’interprete è troppo vicino; altre volte, spesso quelle cruciali, la spiegazione della nostra visione si trova dentro casa, ma noi la cerchiamo lontano. Quando dalle imprese for-profit ci spostiamo verso l’economia civile e magari arriviamo alle comunità religiose, per capire alcune “visioni”, quelle che non ci fanno dormire per molte notti per molti anni, l’interprete deve stare dentro. Qui l’unica distanza terapeutica buona è zero. Questi interpreti conoscono la visione prima che gliela raccontiamo perché è anche la loro. Il consulente che si avvicina dall’esterno alle Organizzazioni a Movente Ideale, che in genere non appartiene al loro sogno carismatico, deve essere ben cosciente di essere un “angelo” fuori dal sogno. Deve quindi spendere molto tempo ed energie per provare a sognare ad occhi aperti, cercare di entrare in quella visione notturna senza esserci. E poi, dopo lungo tempo e silenzio mite, dire qualche parola come fosse quell’angelo consapevole di non esserlo. Ricordarsi e ricordare ogni giorno, fino alla fine, di non essere l’interprete di cui avrebbero davvero bisogno. È dalla coscienza di questa fragilità che può nascere la sua utilità.


Articolo pubblicato su avvenire.it